L'Etica delle Piattaforme e lo Spirito del Capitalismo nel XXI Secolo

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Cory Doctorow, esperto di diritti digitali e pioniere dell'attivismo digitale, ha scritto un pezzo sulle piattaforme web che inizia così:

Così è come muoiono le piattaforme: prima di tutto, sono buone con gli utenti; poi abusano gli utenti per accontentare i clienti commerciali; poi ancora abusano dei clienti commerciali per riportare tra le loro grinfie tutto il valore per se stesse. Alla fine, muoiono.

Questa è la logica, così cristallina e di ormai chiara rilevanza per le nostre vite, con cui operano aziende come Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp), Alphabet (Google), Amazon, TikTok.

Doctorow chiama sarcasticamente enshittification, ovvero smerdamento, la logica per cui le piattaforme tengono in ostaggio compratori e venditori gli uni con gli altri. Alla fine le piattaforme si prendono la fetta più larga della torta e con essa i buoni propositi con cui sono nate. Chiamatela value proposition, se preferite.

Un esempio? Facebook, nata per “connettere le persone fra loro”, ha inizialmente perseguito questo obiettivo prendendosi cura di selezionare i contenuti da mostrare agli utenti in modo da rendere appetibile il servizio. Ai tempi poteva sembrare come un servizio di messaggistica più potente, ed aveva attratto talmente tanto interesse che le imprese hanno iniziato ad investire pesantemente sulla loro presenza, spendendo soldi in pubblicità, marketing sui social, e anche in risorse umane (i.e. social media manager, ecc.)

Non ci è voluto molto affinché anche Facebook diventasse una giungla di contenuti inutili. Adesso posso dire che visitare la home di Facebook sia una esperienza veramente desolante: un mix di contenuti triti e ritriti, affiancato da pubblicità scadenti di food delivery e audiolibri.

Una esperienza comune a molti e che non riguarda solo Facebook. Pensiamo a come si siano trasformati Amazon, TikTok, YouTube, Instagram negli ultimi anni. Da “servizi” utili per conoscere persone, acquistare oggetti per la casa, vedere video interessanti o divertenti a contenitori pieni di post irrilevanti e fastidiose pubblicità.

Poco male, ci potremmo dire: loro si sono presi il bottino, noi perdiamo interesse e troviamo altre sponde, la piattaforma muore e vissero tutti felici e contenti. Un gioco a somma zero.

Ovviamente non è così. Ci stiamo perdendo un po’ tutti. Per noi utenti, spremuti nella fidelizzazione, spesso la morte di una piattaforma significa perdere un importante strumento per stare in contatto con gli amici, per vedere dove uscire la sera, per trovare le ricette per il pranzo della domenica.

Anche le aziende ci perdono: infatti hanno investito moltissimo nella promessa che sarebbe arrivato, prima o poi, una nuova ondata di clienti, un aumento della click-through rate, nuovi contratti stipulati, abbindolati dalla crescita della creator economy.

Ma intanto l'intera piattaforma si è spenta e tutti gli sforzi si sono vanificati. Probabilmente in un futuro non troppo lontano ci troveremo nella situazione in cui non sapremo più che farcene di social media manager e content creators. Inoltre i progressi fatti nella prototipazione di Large Language Models e simili (i.e. ChatGPT, per intendersi) renderanno queste professionalità sempre più dei vuoti a perdere.

Le piattaforme, infine, ci perdono? Questo dipende dalla loro capacità di reinventarsi, e probabilmente il banco di prova più interessante in questo senso è il rebranding che sta operando Facebook. Rinominata Meta, ora la sua value proposition è diventata “Vivi nel futuro”, e il suo prodotto di punta è il Metaverso.

I più attenti e anche meno giovani riconosceranno nel cosiddetto Metaverso una riedizione anni ‘20 di SecondLife, ma con i visori a realtà aumentata. Ricordiamo tuttavia che Facebook ha dovuto fare i conti anche con il contraccolpo dovuto a recenti scandali ed inchieste. Sicuramente il rebranding è stata guidata dal ciclo di vita della piattaforma, ma anche da una inderogabile necessità di ripulire la propria immagine.

Forse è arrivata la fine della luna di miele con le piattaforme digitali, forse no. Adesso è il momento giusto per riflettere sul nostro rapporto con gli strumenti, in particolare digitali, che usiamo quotidianamente e che sono diventati essenziali nello svolgimento delle nostre vite.

Usiamo Instagram per stare al passo con la nuova gravidanza della cugina, o per decidere dove andare a ballare sabato sera. Usiamo Facebook per trovare l'evento di presentazione del libro o le sagre di paese. Usiamo GMail per mandare curricula ai datori di lavoro, e Spotify per ascoltare i podcast sui delitti più misteriosi della storia italiana.

Abbiamo legittimamente trasferito molte delle nostre attività quotidiane nella sfera digitale. Le piattaforme hanno facilitato questo processo rendendoci accessibili gli usi più creativi e un tempo impensabili del pc e di internet.

Hanno prevalso, tuttavia, piattaforme monopolistiche e multinazionali: la deregolamentazione della sfera digitale in tutto il mondo ha fatto esplodere questa economia. Avendo conquistato la nostra fidelizzazione, le piattaforme hanno iniziato a massimizzare il loro profitto rendendo la nostra esperienza sempre più fastidiosa, ma al limite della nostra sopportazione. Il paradigma della retention quindi si è spostato dalla logica del “il cliente è il nostro Dio” a “il cliente ormai non può fare a meno di noi, quindi devo fare di tutto per farci profitto ma non troppo da farlo abbandonare”.

L'UE si sta muovendo adesso nella direzione di dare dei limiti legislativi alle operazioni delle piattaforme, ma come si suol dire too little, too late. Abbiamo imparato però una lezione: quando un buon prodotto è gratuito probabilmente è perché siamo (o finiremo per essere) noi il prodotto. Tanti sono i mondi possibili, e col tempo li conosciamo sempre meglio: sta a noi scegliere quello che ci piace di più.

Impressum: cover image Lightburst // Lichtausbruch by Frank Lindecke.

 
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