Siamo complici nelle relazioni accademiche con la Cina?

Collage di Jon Han

Le relazioni tra Cina e i paesi Europei sembrano si stiano rinsaldando sempre più: in particolare Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese (PRC) dal 2013, ha onorato l'Italia della sua visita tre mesi fa (Marzo 2019). In tale occasione, come scrive il Post, il presidente cinese ha fatto tappa a Roma e a Palermo e ha incontrato le figure istituzionali più preminenti: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico, la Presidentessa del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi di Maio.

In particolare con quest'ultimo e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte Xi ha firmato un Memorandum d'Intesa sulla BRI, la celebre Belt and Road Initiative a cui talvolta ci si riferisce impropriamente come la nuova Via della Seta. Si tratta di un imponente progetto che prevede investimenti infrastrutturali in sessantotto paesi dell'Occidente Europeo, del Medio Oriente e dell'Africa per un'ammontare di più di dodici Piani Marshall al netto dell'inflazione. Se siete interessati al Memorandum d'Intesa e sulle persone che ruotano attorno a questa nuova alleanza trovate un articolo del Post, in cui vengono prese in considerazione le implicazioni del memorandum stesso, e un articolo di Euractiv, che rivela indiscrezioni sul contenuto del memorandum e sulla (tiepida) accoglienza che questa notizia ha avuto nella Commissione Europea.

Sede distaccata della Università di Liverpool a a Suzhou, Cina.

In realtà questa complicità con la Cina è pervasiva e prescinde dal colossale piano di investimenti infrastrutturali: anche il mondo accademico europeo entra sempre più in contatto con il mondo asiatico e inevitabilmente con il suo più grande attore. È notizia recente che l'Università di Trento abbia rinnovato un accordo bilaterale con la Jilin University; ma di accordi simili, pur di entità più ridotta, sono stipulati in grande numero dai singoli Dipartimenti della stessa Università. In senso più ampio e generale questa è una tendenza evidente in tutta Europa: come indicato in un report della Russell Group, istituzione equivalente alla Ivy League nel Regno Unito, tutte e ventiquattro le Università britanniche più prestigiose hanno «estensivi collegamenti con la Cina, […] che vanno dalle collaborazioni tra personale accademico a investimenti di larga scala in sedi distaccate o centri di ricerca congiunti». Sempre nello stesso documento si citano come esemplificativi i seguenti casi:

Immagini degli scontri di Piazza Tienanmen.

Sorge allora spontanea una domanda: a trent'anni dagli scontri di Piazza Tienanmen possiamo considerare la Cina e le sue istituzioni dei partner accademici affidabili?

Se guardiamo alle belle parole della Hefei Statement, firmata da Association of American Universities, League of European Research Universities, dalla Group of Eight e da nove tra le più importanti università cinesi, sembra che la situazione sia di gran lunga migliorata rispetto al secolo scorso. In generale la Repubblica Popolare Cinese (PRC) sta investendo ingenti risorse per aumentare la competitività delle sue istituzioni universitarie e scalare le graduatorie internazionali. Sono annoverate tre università cinesi (tra cui, si noti bene, due sono la Hong Kong University of Science and Technology e la University of Hong Kong) nei primi cinquanta posti della Times Higher Education World Ranking.

Tuttavia, come fa notare Cary Huang sul South China Morning Post, con l'arrivo di Xi Jinping alla guida della PRC sono stati posti sempre più vincoli alla libertà accademica di ricercatori e professori, annunciando che le Università dovessero diventare “fortini della leadership del Partito”. In un certo senso questa trasformazione ha già iniziato il suo corso: già nel giorno successivo alla consacrazione dello Xi-pensiero nella nuova costituzione della PRC è stata inaugurato alla Renmin University un Centro di Ricerca per lo Xi-pensiero, sotto l'attenta guida del Partito Comunista Cinese (CCP). All'inizio del 2018 vi erano già addirittura dieci centri di ricerca simili, dediti allo studio dello Xi-pensiero. A detta di una dichiarazione della agenzia di stampa nazionale Xinhua, l'obiettivo di tali centri è quello di “approfondire la ricerca e l'interpretazione del pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era”. Se siete curiosi potete seguire un apposito corso MOOC su edX tenuto all'Università di Tsinghua: a detta del Syllabus, il corso richiede solo un paio d'ore di impegno alla settimana.

Questa tendenza purtroppo non rimane limitata a poche élites accademiche, ma anzi sembra che il CCP sia intenzionato ad ampliarla in tutti gli ambiti: nel Gennaio 2018 il Ministro dell'Istruzione Chen Baosheng ha affermato che “Nel prossimo anno il Ministero dell'Istruzione ha intenzione di introdurre un nuovo curriculum, nuovi criteri di valutazione e docenti più qualificati che saranno preparati specificamente in educazione ideologica”. Gli atenei vengono incentivati a seguire la strada della partitizzazione, grazie a lauti fondi appositamente allocati e promozioni di carriera, e anche per mostrare lealtà al Partito al potere. Addirittura preparare un articolo di giornale o un video propagandistico è equiparato alla pubblicazione di un paper accademico, e permette di ottenere importanti ricompense.

Ad esempio, affinché gli studiosi delle scienze sociali possano ottenere fondi per i propri progetti da parte del National Planning Office of Philosophy and Social Sciences, essi devono ottemperare a determinati requisiti contenutistici. Nella maggior parte dei casi viene chiesto loro di focalizzare l'attenzione sull'ideologia del CCP o sulla propaganda. Analogamente, si chiede che i progetti riguardanti le belle arti “tengano alta la bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi e implementino nella loro totalità lo spirito del XIX Congresso del Partito” (ndr, quello in cui è stato presentato per la prima volta lo Xi-pensiero).

Il CCP adesso impone l'insegnamento di un corso che ruota attorno al pensiero di Xi Jinping per la scuola dell'obbligo. Non si tratta di un corso con discussioni filosofiche o economiche sofisticate, bensì di una implementazione molto banale dei dettami del Presidente.

Foto del diciannovesimo congresso del Partito Comunista Cinese.

Non soltanto: la CCP, oltre a rafforzare l'indottrinamento ideologico, è anche fortemente repressiva nei confronti di chi esprime minimamente il dissenso nei confronti di quello che ormai può essere considerato un pensiero unico di Stato.

A mo’ di avvertimento è stato diffuso internamente il cosiddetto Documento 9 (ragionevolmente denominato così poiché è il nono documento interno pubblicato quest'anno), che recita affermazioni raccapriccianti e orwelliane come

Il principio del controllo dei media da parte del Partito nasce dal nostro sistema politico e dalla natura dei nostri media. Dobbiamo mantenere la direzione politica corretta. Dobbiamo restare fedeli al principio dello spirito dei media del Partito e della responsabilità sociale, e al fatto che in materia politica i media devono essere tutt'uno nel cuore e nella mente con il Partito.

oppure ancora

Dobbiamo rafforzare la nostra gestione della propaganda culturale di tutti i livelli e di tutti i tipi […], e non dobbiamo lasciare nessuna opportunità o nessuno sfogo affinché si diffondano pensieri o punti di vista errati.

Purtroppo queste direttive trovano riprova del loro pieno vigore nei fatti: svariati dissidenti vengono silenziati, altri mandati in esilio o incarcerati, altri ancora sospesi dal loro incarico accademico e relegati a mansioni più umili. Gli accademici stessi ammettono che “esiste una linea invisibile di ciò che non possiamo dire; tuttavia questa linea è circondata da una ulteriore zona grigia di argomenti di dubbia legittimità partitica, che cerchiamo di evitare.” Perciò in questo atto di auto-censura, ricercatori, professori e studenti risparmiano al Governo misure repressive che, altrimenti, potrebbero essere sfoderate.

Nella Regione Autonoma dello Xinjiang, a nord-est della Cina, più di 300 intellettuali uiguri sono stati incarcerati in campi di detenzione. Si presume che in tali campi, in cui è applicata una sistematica persecuzione nei confronti della minoranza etnica di religione musulmana degli Uiguri, siano detenute più di 1.1 milione di persone.

Nel 2011 il ricercatore e attivista cinese, docente all'Università di Beijing di Politica e Giurisprudenza, Teng Biao è stato catturato e detenuto per due giorni all'insaputa di sua moglie e sua figlia. Dopo il successivo arresto dei suoi due avvocati e il rilascio, Teng ha scelto di scappare nel New Jersey come ricercatore a rischio. Egli stesso afferma che

Tante persone si stanno progressivamente disilludendo e sentono che sia meglio scappare via dalla tempesta autoritaria di Xi Jinping.

Anche Qiao Mu, ormai ex-professore associato all'Università di Studi Esteri di Beijing, ha scelto di scappare dal suo paese nonostante avesse affermato la necessità di fare crescere il dissenso all'interno della Cina stessa. Affermava che

Bisogna cambiare la nazione, non la nazionalità.

La sua voce è stata spenta nel momento in cui gli è stato vietato l'insegnamento. Gli è stata negata ogni promozione, è stato costretto a diventare bibliotecario e gli è stata decurtato lo stipendio da 300'000 RMB a 200'000 RMB. Inoltre gli è stato negato anche il fondo per la ricerca che ammontava a 200'000 RMB.

Il giurista ricercatore Teng Biao aveva ottenuto una borsa di ricerca ad Harvard e in seguito alla NYU: si era recato negli Stati Uniti con la sua figlia più piccola. In seguito però è stata negata a sua moglie e all'altra figlia la possibilità di uscire dalla Cina. Esse sono state costrette ad uscire clandestinamente dal paese passando per il Sud Est asiatico, per poi arrivare negli Stati Uniti.

Uno scorcio dell'Università di Cambridge

Se pensiamo che questi episodi intimidatori e autoritari rimangano confinati nella PRC, ci sbagliamo di grosso: in seguito a pressioni del governo cinese, la Cambridge University Press ha censurato una sua pubblicazione. A seguito di una enorme protesta in risposta, la CUP ha deciso di ritirare l'atto di censura: troppo tardi, però, per evitare l'indignazione pubblica nei confronti di tale debolezza. James Millward, professore di storia all'Università di Georgetown, afferma che

Questo atto costituisce una palese violazione dell'indipendenza accademica, all'interno come all'esterno della Cina.

Perché continuiamo allora a collaborare con un Paese che arriva addirittura a porre a rischio l'incolumità dei propri ricercatori? Follow the money…

Come afferma la ricercatrice Eva Pils (King’s College London)

Ci sono molti rapporti di collaborazione consensuali, specialmente dove vi è supporto finanziario per la ricerca accademica: tali relazioni possono essere fortemente problematiche. […] Vi sono svariate collaborazioni che prendono la forma di programmi di scambio, conferenze congiunte, sedi distaccate in Cina, joint ventures. È ovviamente importante intrattenere questo genere di relazioni; tuttavia quelle con la Cina vengono perlopiù proposte con vincoli stringenti in modo esplicito o anche sotto forma di intimidazioni alle controparti occidentali per ciò che riguarda la trattazione di temi sensibili come i diritti umani.

Di conseguenza si ritiene che

Vanno ripensati i rapporti con cui siamo legati alla Cina, e bisogna rimettere sul tavolo la convinzione paradigmatica che la collaborazione e lo scambio con università di Paesi autoritari avrebbe reso tali istituzioni più liberali e meno soggette al potere statale. […] Sarà necessario anche ripensare il proprio ruolo di mezzo complice / mezza vittima nei confronti della Cina, e resistere a tali pressioni in modo più sistematico.

Va in questa direzione la Linea Guida pubblicata da Human Rights Watch, che prescrive alle Università e in generale alle Istituzioni Accademiche un codice di condotta per valutare, caso per caso, se gli interlocutori che ci troveremo ad affrontare non ledano e non minaccino le libertà accademiche di cui, teoricamente, gli atenei dovrebbero essere la casa.

Si tratta di dodici punti molto dettagliati, che impegnano le istituzioni accademiche a prendere di petto certe situazioni poco chiare o addirittura a rifiutare l'ingerenza e la fondazione di nuovi Istituti Confucio (gli Istituti Confucio sono estensioni del governo cinese che censurano determinati temi e prospettive nei programmi dei corsi su basi politiche).

Le Università italiane saranno in grado di resistere alle golose opportunità strings-attached della Cina o si renderanno complici di una sistematica operazione di censura e repressione di Stato? Le dichiarazioni del Parlamento Europeo fanno sperare in una stance, seppur tiepidamente, più rigida nei confronti di chi viola apertamente i diritti fondamentali dell'uomo. Tuttavia starà alle stesse istituzioni coinvolte l'onere di rivedere da principio i rapporti con Paesi dagli atteggiamenti equivoci, affinché le Università rimangano la casa delle libertà accademiche.

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